domenica 30 marzo 2014

IL DIGITALE NATURALE

Il digitale naturale oltre il digitale informatico


di 

La comunicazione generativa (il volume) “è difficile”.
È la conclusione di molti degli studenti che lo ‘portano’ all’esame.
Molti, ma non tutti.
A volte (più spesso di quanto si immagini, in realtà) le conclusioni sono affatto differenti.
La comunicazione generativa? Sì, è stata una bella lettura.
Difficile? No, perché? Molto interessante.
È una questione di sensibilità? Non saprei. Forse si tratta solo di percorsi formativi differenti. Un giorno ne verremo a capo. Per ora mi limito a riportare la risposta che ho ricevuto all’ultima sessione di esami dalla studentessa Giulia Migliaccio a una domanda relativa al concetto di “digitale naturale”.
Giulia ha accettato di mettere per iscritto la sua risposata. Eccola, testuale, di seguito.
Per approfondimenti si rimanda al Capitolo 1 de La comunicazione generativa di Luca Toschi (Apogeo, Milano 2011), in cui il punto 1.3 si intitola, appunto, Oltre il digitale informatico: il digitale naturale.
Buona lettura.
Tutti sappiamo che oggi il naturale e l’artificiale hanno completamente sconvolto i termini della loro relazione tanto da confondere nella mente dell’uomo quale sia davvero il confine tra ciò che rimane solamente immaginabile e ciò che risulta davvero realizzabile.
Questo, però, non è un fenomeno da collocare esclusivamente nella modernità perché se siamo arrivati a far collaborare in stretta sinergia elaboratore e mente umana è proprio perché da sempre l’umanità ha mescolato realtà e finzione.
Ciò di cui ancora oggi non siamo completamente consapevoli è che il nostro più grande errore è contrapporre digitale naturale e digitale informatico.
I nostri pensieri stanno prendendo sempre più vita grazie ad una digital vision della realtà che erroneamente l’uomo reputa possibile solo grazie all’esistenza di elaboratori non comprendendo che, in realtà, la digitalizzazione è nata prima della nascita del primo computer dal contrasto di forze che rappresentano la struttura della nostra realtà.
Il digitale naturale è l’insieme di tutti i collegamenti e di tutte le divisioni agite dall’essere umano sugli elementi che compongono la realtà e il digitale informatico è solo un piccolo riflesso, un piccolo frammento di questo ampio fenomeno. Deve essere considerato come supporto facilitatore, conseguenza, della costruzione di questa complicatissima trama che è il processo storico della nostra storia: la storia dell’umanità.
La dimensione digitale dell’elaboratore è il riflesso tecnologico dei nostri saperi e del nostro modo di vedere e agire sul mondo che attraverso di esso si possono materializzare.
Un mezzo che dovrebbe aiutare l’uomo e non confondere ancora di più la sua percezione del possibile e dell’impossibile, dell’artificiale e del naturale.
Queste macchine non fanno immaginare un progetto di mondo completamente diverso, un progetto per cambiare e sconvolgere le grammatiche oggi dominanti, in quanto sono intrise di valori e obiettivi che affondano le radici proprio in esse.
Questo, invece, è l’obiettivo più grande che l’uomo deve porsi e che solo attraverso le sue capacità “naturali” può raggiungere, anche sbagliando.
Infatti è solo sbagliando che possiamo trovare quello che non sapevamo esistere e quindi migliorarci.

sabato 8 marzo 2014

SINTETICA O GLOBALE?

S. Boca, U. Pace, S. Severino (a cura di), Apprendimento, relazioni sociali e nuove tecnologie, Unicopli 2009






sabato 1 marzo 2014

Femminicidio e violenza di genere


di Simonetta Ulivieri
14 giugno 2013

Il femminicidio si riferisce alla natura specifica di un crimine violento contro la vita di una donna da parte di un uomo che è spesso un parente di sangue o da parte di qualche altro membro della famiglia. Certo, il femminicidio non è un’ invenzione femminista, una realtà virtuale, si tratta di un fenomeno che ha radici profonde nel passato storico in cui le donne non erano libere di parlare apertamente, non avevano alti livelli di istruzioni ed erano considerate sopratutto in quanto madri e oggetti sessuali degli uomini. Una domanda centrale che occorre porci come pedagogisti e come educatori inerisce ai modi del contrasto di tale comportamento violento e inaccettabile anche attivando politiche educative adeguate e identificando, definendo e promuovendo approcci educativi che tangibilmente esprimono ed incarnano il rispetto a cui ognuno ha diritto a prescindere dal proprio genere.

1. “FERITE A MORTE”. LA VIOLENZA SULLE DONNE
Quotidianamente assistiamo a uno stillicidio di uccisioni di donne da parte di mariti, conviventi, fidanzati, amanti, partner, e ex-partner, ma anche padri e fratelli. Ma sappiamo, analizzando le storie di vita di queste donne uccise, che esse in precedenza nella vita cosiddetta “normale” sono state a lungo ostaggio di una “violenza domestica” sempre più pesante, sempre più feroce da cui a volteavevano cercato scampo attraverso denunce che sono rimaste inascoltate. Le loro vite sono “cronache di una morte annunciata”.
Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità le uccisioni di donne, in quanto tali, da parte di loro familiari è nel mondo del 38%, in Italia secondo le stime del Viminale e delle Forze di Polizia, negli ultimi tre anni oltre il 50% delle donne uccise ha perso la vita per mano di loro familiari, ovvero da parte di coloro che dovrebbero amarle e caso mai aiutarle a vivere. Sono circa un centinaio le donne che in un anno vengono uccise per motivi di possesso e di gelosia e con modalità molto cruente e tragiche, dalle donne soffocate, a quelle strozzate, a quelle accoltellate, a quelle uccise con armi da fuoco, o addirittura gettate dai piani alti di qualche abitazione. Il dato preoccupante è che mentre gli omicidi nel nostro Paese tendono a diminuire nel tempo, il numero di quelli perpetrati sulle donne rimane stazionario, quasi che una “rabbia di genere” permanesse contro di loro, la media, ormai da anni, è di un omicidio ogni tre giorni. Ciò che colpisce in queste vite fatte di soggezione e di paura, e poi di eliminazione e di morte è il disprezzo di cui sono state fatte oggetto, la totale noncuranza per il loro benessere, la determinazione nel privarle di ogni spazio di libertà. E questo fino ad arrivare alla loro cancellazione fisica, che viene ammantata da termini come l’amore, o la gelosia, o il timore di perderle. Per alcuni individui sembra che l’uccisione di una donna, corrisponda ad una pulsione identitaria profonda, quasi che la morte della persona più debole e soggetta al proprio potere rappresenti una forza catartica, liberatoria di un proprio sé maschile che essi ritengono in qualche modo messo in forse dalla libertà dell’altra da sé. E forse è proprio per questo particolare tipo di soddisfazione che alcuni uomini provano nell’uccidere una donna (che ritengono spesso di loro proprietà), che gli assassinii di donne in questi anni non sono diminuiti. Questa guerra privata contro le donne è diventata talmente eclatante che di recente la violenza omicida perpetrata sulle donne è stata definita con un termine nuovo più mirato: “femminicidio”. Di fatto se uccidere è un reato grave, farlo perché si ritiene che l’altro sia una nostra proprietà è ancora più grave. Certo non è un termine aggraziato, e alcuni lo rifiutano considerandolo inutile, eccessivo, ritenendo che basti il termine omicidio per definire l’uccisione di un’altra persona umana. Il femminicidio definisce la specificità di un’azione violenta contro la vita di una donna, da parte di un uomo che spesso è legato a lei da vincoli di sangue o parentela. Certo il femminicidio non è un’invenzione femminista, una realtà virtuale, è un fenomeno le cui motivazioni nascono da lontano, da periodi storici in cui le donne tacevano, vivevano nell’ignoranza, erano considerate “mammifere” atte solo a fare figli e a soddisfare i bisogni sessuali dei loro uomini. Salvo poche classi privilegiate questo, in forma più o meno edulcorata, è stato nei secoli il destino delle donne. Alle donne si addicevano il silenzio e la pudicizia, non dovevano parlare in pubblico e moderatamente nel privato. Potevano essere ripudiate o sostituite, la loro forza stava solo nell’essere madri di figli maschi. Se commettevano adulterio venivano lapidate, se giovanissime si rifiutavano di accettare un matrimonio combinato potevano essere sgozzate. La loro vita era segnata fin dalla nascita: l’infanticidio e l’abbandono di neonate è sempre stato numericamente maggiore secondo i demografi tra le bambine che fra i maschietti. Ed ancora oggi in qualche paese del mondo si attuano aborti selettivi, che mirano ad eliminare le piccole ancor prima della nascita. In una ricerca svolta sulla violenza sulle donne contadine nelle campagne marchigiane agli inizi del secolo scorso, Paolo Sorcinelli ha notato come la vita delle donne fosse molto coinvolta da violenze di ogni genere, e come le donne stesse, sia pure per reazione, non ne fossero esenti. Scrive Sorcinelli: “La donna appare molto più verosimilmente invischiata e trascinata in una violenza quotidiana (fatta di pugni e calci, ma perpetrata anche con coltelli, falci e bastoni), diffusa e a volte impalpabile, che solo in minima parte approda nelle aule dei tribunali. Contro simili episodi, anche se ripetuti e di dominio pubblico, quasi mai c’è un intervento d’ufficio; del resto è opinione largamente diffusa e condivisa a tutti i livelli sociali che i rapporti all’interno della famiglia rientrano nella sfera privata e che il marito/capofamiglia può e anzi deve esercitare sugli altri membri una severa autorità e un rigido controllo. Magari anche con la sopraffazione”. Dacia Maraini che da anni si occupa di questi drammi che soprattutto avvengono in famiglia, dimostra con i suoi racconti, spesso ripresi da storie vere, che il femminicidio in Italia è solo la punta di un icerberg, che nasconde sotto la superficie una montagna di soprusi e di dolore che va sotto il nome di “violenza domestica”.
Si tratta di una vera e propria tragedia di portata nazionale, che procura lutti e dolore in maniera ricorrente. Dietro le porte, tra le pareti delle nostre case si nasconde questa sofferenza silenziosa che generalmente viene “spiegata” (giustificata?) come una volontà di possesso maschile. Ma nel contesto di una società patriarcale, che ancora in Italia ci appartiene, la violenza domestica rivolta alla partner non è concepita come un crimine, soprattutto quando le vittime dipendono economicamente dagli autori della violenza e dove sia diffusa la percezione sociale che tali comportamenti “ri-educativi” dell’uomo sulla donna siano leciti e accettabili, una norma della dialettica amorosa. Tanto che molti episodi di violenza non vengono denunciati e le donne arrivano alla denuncia solo dopo reiterati episodi di violenza soprattutto quando sono costrette a ricorrere alle cure mediche e ospedaliere e capiscono che è stato oltrepassato ogni limite e la loro vita e alle volte anche quella dei figli o di altri familiari è a rischio (in alcuni casi la violenza contro le ex-partner si scarica anche contro le loro madri o sorelle, la cui colpa è quella di sostenerle o difenderle dalle minacce verbali e dalle violenze agite).

2. “PEDAGOGIA NERA” E FEMMINICIDIO
Il concetto di genere, come quello di ruoli sessuali, nasce come formulazione non dalla presa d’atto oggettiva e neutrale di una realtà sessuata, quanto dalla diretta constatazione di uno squilibrio asimmetrico tra i due generi. Il genere è il primo terreno di scontro, quello privato, nel quale il potere si manifesta. Definire il genere significa immediatamente evocare il potere di un sesso su un altro. Storicamente questo dato è stato da tempo studiato e analizzato. La differenza che in natura è data tra i sessi ( il corpo femminile e quello maschile presentano caratteristiche proprie e capacità diverse tra loro) è stata utilizzata per la costruzione di una storica disparità, da cui è sorta la divisione del lavoro e dei compiti quotidiani, nonché l’accesso alla sfera intellettuale e simbolica. Nel tempo questa organizzazione dispari si è profondamente radicata nel costume, discriminando le bambine e le donne, a svantaggio del genere femminile. Questa gerarchia tra i sessi ha una valenza secolare e ancora oggi se ne avverte spesso il peso. Ha scritto a riguardo Miriam Mafai: “Ho vissuto per quasi cinquant’anni in un paese nel quale i mariti potevano picchiare la moglie per “correggerla”, nel quale l’unica forma di contraccezione prevista era l’aborto clandestino o il coitus interruptus, nel quale le donne non potevano entrare in magistratura, perché – aveva dichiarato alla Costituente un insigne giurista – per alcuni giorni del mese non sarebbero state in possesso dell’equilibrio necessario per giudicare. Non chiedetemi in che paese vivevo: quel paese era l’Italia”. È evidente che la violenza sulle donne rappresenta l’ultimo tentativo di ristabilire con la forza uno storico potere degli uomini che di recente è stato eroso e compromesso dalle conquiste paritarie delle donne. È un errore ritenere che il femminicidio sia espressione delle classi più povere e deprivate, in realtà il femminicidio e la violenza sulle donne attraversano tutte le classi anche quelle più ricche e agiate, in cui gli uomini dovrebbero avere una formazione più aperta, civile, rispettosa dell’altro. Ad esempio nell’estate del 2013 un brillante avvocato penalista di Verona, persona stimata e affermata, dopo una cena galante in un ristorante e un tentativo di riavvicinamento alla sua ex-fidanzata, la ha strangolata. Il corpo della giovane donna è stato ritrovato nella Bmw dell’assassino a tre giorni dalla scomparsa. L’uomo catturato dai carabinieri ha confessato. Evidentemente non aveva tollerato la ferita inferta al suo narcisismo dal rifiuto della ragazza di tornare con lui.
Nel rapporto di coppia sono presenti spesso dinamiche di potere molto forti, dietro cui c’è da un lato un amore oblativo, dimentico di sé, dall’altro un amore preteso come sottomissione. Sono rapporti, quelli uomo/donna spesso impostati sulla supremazia di un sesso sull’altro. In queste relazioni, costruite in maniera sbagliata e asimmetrica, capita che la vittima sia complice, in maniera conscia o inconscia, del suo aguzzino. I maltrattamenti sono fatti risalire da coloro che esercitano la violenza ad una perdita di controllo, spesso addebitata all’insipienza e all’incapacità femminile. Gli uomini definiscono le donne (fidanzate, mogli, compagne, ecc.) come ansiose, rompiscatole, ignoranti, disubbidienti. In altri termini la donna è uguagliata ad un minore, considerata come una persona su cui agire in varie forme coattive psicologiche e anche fisiche per convincerla ai comportamenti imposti, una sorta di “pedagogia nera” considerata necessaria nel rapporto.
Spesso gli autori di episodi di pesante maltrattamento tendono a minimizzarli e comunque cercano di superarli con episodiche forme di pentimento, che convincono le donne maltrattate a tentare nuovamente una convivenza. E poi ci sono le pressioni sociali, il timore del giudizio della comunità, i parenti che invitano alla pazienza, la preoccupazione di allontanare i figli dal padre e in taluni casi anche la dipendenza economica, nel caso di donne casalinghe. Negli anni di convivenza le donne vengono educate a sottostimarsi, a sentirsi inadeguate, a non intravedere alcuna via di fuga. Spesso la rassegnazione e l’accettazione di maltrattamenti sottili o bestiali sembra l’unico modo per sopravvivere. Nota giustamente in proposito Barbara Felcini: “I valori, le regole, i miti familiari ancora presenti nel tessuto sociale delle province italiane, le pressioni esercitate dai genitori e dalla rete parentale, la dipendenza economica, la paura della solitudine sono tutti elementi che contribuiscono a trattenere le donne in situazioni di abuso e di dipendenza, di inferiorità e di sottomissione, impedendo loro di vivere una vita piena e gratificante”.

3. POLITICHE FORMATIVE PER CAMBIARE LA MENTALITÀ VIOLENZA
Da pedagogisti e da educatori occorre chiedersi come contrastare con adeguate politiche formative tali comportamenti del tutto inaccettabili, come definire e promuovere modalità educative che esprimano concretamente nei fatti il rispetto a cui ognuno ha diritto, indipendentemente dal sesso di appartenenza (come pure dall’orientamento sessuale). Di recente nel nostro Paese si è sviluppato tutto un positivo movimento democratico per rendere più precise e mirate le norme di legge che colpiscono chi si rende colpevole di omicidi efferati contro le donne, partendo dall’opinione, purtroppo ancora diffusa, che le donne appartenenti alla propria famiglia o con cui si hanno relazioni amorose e/o sessuali siano una proprietà su cui si ha diritto di vita e di morte. Certo è importante che anche le leggi ribadiscano il diritto di ogni cittadino e cittadina a vedere rispettata la propria libertà ed integrità personale. Ma le norme giuridiche sono un quadro all’interno del quale sono la società, la famiglia, la scuola che devono mutare atteggiamento.
La legge deve perimetrare ciò che la cultura civile ritiene giusto e lecito. Ma più che a punire, una legislazione che si opponga al femminicidio, come cultura di odio e violenza diffusa contro le donne, dovrà guardare a favorire il cambiamento delle mentalità più retrive, facendo sì che le regole di una corretta convivenza si radichino nella società, soprattutto nella mente e nel cuore delle persone, attraverso una educazione al rispetto dell’altro. Cosa significa ad esempio cambiare la mentalità di chi picchia abitualmente la moglie o la compagna, magari davanti ai figli? Probabilmente quell’uomo violento ritiene che questo comportamento ri-educativo della partner, sia pure educativo per i figli e le figlie, insegnando loro, attraverso i comportamenti quotidiani quale sarà il loro ruolo in una vita futura. C’è chiaramente una circolarità della violenza. Sicuramente quell’uomo maltrattante ha avuto esempi analoghi in famiglia, dove le modalità relazionali si imparano per exemplum, ripetendo ciò che si è visto fare. Quella è l’educazione che quell’uomo ha avuto in famiglia e nella comunità di appartenenza, quelli sono i gesti violenti che ha visto e le parole arroganti che ha ascoltato per decenni intorno a sé fino ad acquisire la sicurezza della legittimità di compierli. “Se nella vita quotidiana e nelle decisioni che contano – come ha scritto di recente Chiara Saraceno – le donne continueranno ad essere considerate cittadine di serie B, molti uomini continueranno a sentirsi autorizzati a trattarle come tali anche nei rapporti privati. E molte donne continueranno a ritenersi persone di serie B, con meno diritti, accettando richieste e violenze rischiose”.
È evidente infatti che la nuova stagione inaugurata negli anni Settanta dal neo-femminismo di “liberazione delle donne” e che tendeva a superare e a rimuovere tutta una serie di norme comportamentali più rigidamente dirette al controllo delle loro condotte, come pure l’accesso non più negato al campo dell’istruzione secondaria e universitaria, come anche l’ingresso diffuso nel lavoro extradomestico e quindi di conseguenza l’autonomia economica, come pure la rapidità e la diffusione dei mezzi di comunicazione, abbiano progressivamente permesso alle nuove generazioni di donne di compiere scelte esistenziali del tutto inimmaginabili nelle precedenti generazioni delle loro madri e nonne. In questo nuovo contesto di forte sapore emancipativo e comunque di maggiore autonomia decisionale delle donne, anche le scelte affettive vengono gestite di conseguenza come scelte di libertà e di condivisione. In certe realtà tuttavia, malgrado la patina di modernizzazione nelle relazioni di coppia, il rapporto paritario tra i sessi rimane spesso solo apparente, e a volte le scelte di libertà e di autonomia delle giovani donne creano nei partner un forte senso di disagio, la messa in discussione del loro tradizionale dominio secolare, minacciando la stessa identità maschile vissuta spesso come un’identità forte e di potere, anche all’interno della relazione d’amore. Si potrebbe parlare in senso freudiano della “passione fallica” dell’avere, del possedere che viene delusa dall’abbandono. Secondo questa lettura psicanalitica anche il fenomeno ossessivo della gelosia maschile che spesso è alla base di tanti atti di violenza, può essere interpretato non come paura di perdere l’oggetto amato, ma come proiezione sull’oggetto di gelosia delle forti spinte al tradimento che invece appartengono (incosciamente o cosciamente) al partner geloso.
Il fenomeno del “femminicidio” ci deve rendere consapevoli che le donne si sono configurate e modellate nei secoli secondo i modelli richiesti dagli uomini (anche grandi pedagogisti come J.J. Rousseau non sono sfuggiti alla tentazione di definire una educazione e istruzione inferiori e subalterne per le donne). Occorre ripensare le identità culturali, il “maschile” e il “femminile”. Le immagini di uomo e di donna tradizionali a cui siamo abituati non funzionano più. Soprattutto gli uomini, messi in contatto con le nuove realtà di genere, non solo non le accettano, ma esplodono in comportamenti di folle violenza. Gli studi condotti di recente sul femminicidio dimostrano che alla base della violenza omicida c’è la punizione, la cancellazione della donna, perché può mettere in crisi, con il suo agire con logiche di autonomia, un’immagine di maschio possessore e dominatore. Notano Lipperini e Murgia che il femminicidio definisce“un tipo di delitto che avviene all’interno di relazioni impregnate di una struttura culturale arcaica, che ancora non si dissolve”. Anche le storie di donne uccise nel 2012, raccolte da Riccardo Iacona, mostrano generalmente figure di donne semplici, ma capaci di tirare avanti la famiglia, donne che lavoravano e portavano a casa anche il denaro per la sopravvivenza del nucleo familiare; sono quindi donne brave, donne forti che si accollano la responsabilità. I loro uccisori, mariti o compagni, sono uomini deboli, che non lavorano, che si sentono umiliati nella loro difficoltà di essere “veri” maschi.
Le donne sono cambiate nei fatti, nella realtà quotidiana, di conseguenza anche sul piano culturale deve modificarsi la visione tradizionale del “maschile” e del “femminile” che ancora circola in alcuni ambienti e che i mass-media continuano a propinarci e a diffondere. Il corpo femminile esibito segna il confine tra liberazione e reificazione della donna. La mercificazione del corpo femminile è un messaggio tragico rivolto alle giovani donne, insegna loro ad umiliarsi, o sottomettersi per ottenere di fare una qualsiasi carriera. Scrive Serena Dandini: “Sempre più spesso i delitti avvengono per l’incapacità di elaborare il lutto di una separazione, per la difficoltà di trasformare in dialogo la frustrazione di un fallimento. Le donne hanno imparato a lottare per la loro autonomia economica, cominciano a trovare il coraggio per inventarsi una vita diversa, anche a costo di stare da sole con i figli; gli uomini invece non ce la fanno a lasciarle andare, nonreggono l’abbandono che è vissuto come un affronto atavico che colpisce e annienta orgoglio e amor proprio”.
Se ripensare l’identità femminile è uno dei compiti primari, non è meno importante trasformare l’identità maschile nelle relazioni, nell’educazione, nella cura. Gli uomini, fin dall’infanzia devono essere aiutati a gestire questo cambiamento epocale. Da adulti possono trovare altre strade per gestire la loro rabbia e la loro sofferenza. Il nostro è un mondo contraddistinto dall’analfabetismo sentimentale, spesso si viene educati a considerare la prevaricazione e la violenza come forme possibili della relazione uomo/donna. Femmine e maschi crescono ingabbiati in questi ruoli rigidi, che trovano legittimazione in valori antichi, di divisione dei ruoli che ancora oggi vengono contrabbandati come naturali. Il dover essere del “sii uomo”, pronunciato o implicito, segna e accompagna tutta la crescita maschile. Ad esempio diventa sinonimo di virilità la lontananza e l’estraneità dal “prendersi cura”, mentre alle donne, facendo leva sul periodo breve della maternità, la cura è attribuita come ruolo sacrificale per tutta la vita. Anche nell’educazione, soprattutto là dove l’accudimento sembra prevalere sulla trasmissione della cultura, come se i due termini, cura e cultura fossero tra loro in opposizione. Costruire intorno alle donne un recinto di sola cura, tracciare divisioni nette tra lavori di donne e lavori di uomini, ha permesso un rafforzamento degli stereotipi di genere, condannando i maschi a percorsi di aggressività e di autoaffermazione considerati naturali, senza prepararli alla complessità della relazione.
Se le donne non devono essere più viste e pensate come vittime predestinate, anche gli uomini non vanno abbandonati ad una cultura di riferimento che li vuole violenti, dominanti, ossessionati dal possesso e dal timore dell’abbandono. Come scrive Antonio Genovese, va superata “l’idea perversa che la forza risolva i problemi, anzi che solo la forza possa risolvere i problemi: la forza militare, quando sono in causa scontri fra popoli ed etnie, la forza statale per risolvere i conflitti interni, sociali e/o politici, e addirittura la forza privata, individuale e di gruppo, che viene esercitata sia nell’ambito familiare, sia nel tentativo di trovare soluzione ai conflitti interpersonali o di intergruppo”. Questo percorso che cerca nuove forme di dialogo, che mira a ripristinare una relazione positiva e simmettrica tra i sessi, deve trovare diffusione in tutta la società, a partire dall’educazione dei figli, dando uguale valore e chances ai maschi e alle femmine, deve partire dalle scuole in cui nell’insegnamento e nei libri scolastici sia presente un’ottica di genere, in cui nella normale prassi scolastica sia consentito alle femmine quello che è consentito ai maschi, dalla formazione di insegnanti consapevoli che il loro lavoro non si esaurisce nella didattica, ma va ben oltre anche con il messaggio implicito dei loro comportamenti.
La prevenzione si fa a partire dal mondo giovanile che cambia e si oppone alla violenza, si esercita dando asilo nei centri antiviolenza a donne e bambini in fuga dalla violenza, ma si fa anche coltivando l’autoriflessione e la presa di coscienza da parte di uomini “malati” di violenza.